Byod: a scuola con smartphone, pc e tablet. Sì o no?

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Si è conclusa pochi giorni fa “Futura”, l’iniziativa organizzata dal Miur e dal Comune di Bologna per fare il punto sui temi e sullo stato di attuazione del “Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD). Il documento, lanciato dal Miur nel 2015, contiene le linee guida per innovare la scuola italiana e costruire un sistema educativo coerente con l’era digitale. Tra le azioni proposte c’è proprio la promozione del cosiddetto BYOD (Bring your own device – porta il tuo dispositivo), cioè la possibilità che gli studenti utilizzino dispositivi elettronici personali durante le attività didattiche. Sul BYOD insiste anche l’ultimo decalogo emanato dalla ministra Valeria Fedeli e redatto da una commissione di esperti: dieci punti che regolano l’utilizzo del digitale a scuola, come strumento (e non come fine) per rendere gli studenti autonomi, per educarli alla cittadinanza digitale e per innovare gli ambienti di apprendimento.

Strumenti digitali: non giocattoli, ma supporti didattici

La novità principale si gioca, insomma, sull’uso didattico di queste tecnologie. È per questa ragione, infatti, che la normativa precedente non decade. La circolare 2007 dell’allora ministro Giuseppe Fioroni, che contiene il divieto esplicito di portare gli smartphone in classe, è ancora valida perché si riferisce all’uso improprio dei cellulari, intesi come strumenti di distrazione rispetto alle lezioni e all’attività didattica.

Nei dieci punti per l’uso dei dispositivi mobili, invece, gli strumenti digitali sono legati a una finalità didattica, servono ai docenti e agli studenti per approfondire alcuni argomenti di studio e non sono usati per giocare o chattare.

«L’uso di queste tecnologie è affidato al controllo dei docenti, esattamente come avviene con il compasso, i libri e tutti gli altri strumenti utilizzati. I dispositivi digitali, insomma, si inseriscono nell’ambito di un’attività pianificata e programmata dall’insegnante», spiega Daniela Di Donato, docente e membro della Commissione ministeriale dedicata al BYOD. «Siamo partiti da una situazione già esistente: gli studenti vanno in rete da soli, hanno le proprie identità digitali, ma spesso non conoscono i rischi legati al Web. La scuola deve intervenire proprio su questo aspetto, collaborando con le famiglie e rispettando ovviamente le scelte dei genitori».

La scuola del futuro, digitale e innovativa, punta sugli strumenti tecnologici ma anche e soprattutto sulla disponibilità e sull’impegno dei docenti. «Si sta investendo sulla formazione degli insegnanti», conferma la professoressa Di Donato. «Ormai da anni la scuola italiana sta sperimentando la didattica innovativa. È importante agire gradualmente, preparando le classi ad accogliere le innovazioni consapevolmente. Bisogna fare, cioè, un lavoro pregresso sulle relazioni e sulle connessioni reali tra le persone, creando un clima di fiducia».

E se in altri Paesi, per esempio in Francia, l’uso dei cellulari in classe è vietato, l’Italia si apre a una nuova prospettiva: considerarli come strumenti di supporto allo studio.

Il Byod allontana gli studenti dalla realtà?

Certo, nonostante i recenti provvedimenti del Ministero, sembra che il dibattito tra favorevoli e contrari sia ancora acceso.

Lo psicologo Alberto Pellai ha scritto alla ministra Fedeli, per manifestare la sua diversa opinione in tema di “educazione digitale“. «Per essere buoni cittadini del web non si deve avere in mano una tastiera, si deve imparare nella vita reale come usare bene quella tastiera che, prima o poi, si avrà in mano. Questa è per me l’educazione digitale. Un lungo training formativo, basato sull’allenamento di quelle che l’Organizzazione Mondiale della Salute chiama Life Skills e intorno alle quali ha sviluppato un’educazione chiamata Life Skills Based Education (LSBE), un’educazione che si fa tra persone reali e non in contesti virtuali».

Sulla questione è intervenuto anche il pedagogista Daniele Novara che, in un’intervista a Sky TG24, ha detto che il decalogo del Miur si poggia su almeno due equivoci: ritenere a priori che la tecnologia sia una cosa buona e che lo smartphone sia un vantaggio (ma non è così, visto che i bambini e ragazzi sono continuamente distratti e dormono meno); non prendere in esame il fattore età (le linee guida non distinguono tra un bambino di 6 anni e un ragazzo di 18 anni). I rischi di questo abuso della tecnologia possono determinare anche delle complicazioni neurovegetative. Novara osserva, infatti, che «c’è una deprivazione esperienziale, sono ore e ore sottratte alla vita concreta, all’apprendimento concreto. Il bambino è un grumo di esperienza, non di virtualità».

Byod: un alleato per le lezioni e per un uso consapevole della rete

Ma come la pensa chi a scuola ci va ogni giorno?

«I ragazzi hanno intelligenze multiple e completamente diverse da quelle di due generazioni fa. Fare sperimentazione è fondamentale», osserva Celeste Maurogiovanni, docente del Liceo classico “Quinto Orazio Flacco” di Bari. «Le nuove tecnologie contribuiscono – insieme ai libri di testo, alla lettura e alla riflessione – a creare un metodo di lavoro e a espandere la conoscenza, guidandoci nel nostro modo di guardare il mondo. Durante le mie lezioni, anche aiutati dal metodo “flipped classroom” (classe rovesciata, ndr), io e i miei studenti usiamo tablet e smartphone: facciamo ricerche e impariamo a selezionare le fonti. Ben vengano, dunque, le misure proposte dalla ministra Fedeli, ma è importante che i docenti, ai quali l’uso di queste nuove tecnologie è affidato, agiscano secondo morale. Urge rifondare il senso etico della comunicazione».

Favorevole alla sperimentazione BYOD anche Luca Micelli, docente del Liceo scientifico “Luigi Cremona” di Milano: «È nostro compito anche educare i ragazzi ad un utilizzo consapevole dei dispositivi digitali. Più consapevolezza aumenta anche la responsabilità. Per questo è ovviamente necessario che l’utilizzo dei dispositivi in classe non sia arbitrario, ma guidato dall’insegnante. I cosiddetti “nativi digitali” crescono con tablet e smartphone in mano, ma la maggior parte di loro non sa fare altro che postare sui social e ascoltare musica. Una grande percentuale di studenti non riesce ad effettuare ricerche online, anzi, riduce questa operazione alla digitazione dell’oggetto della ricerca, prende il primo link, lo copia e incolla e il gioco è fatto. Noi abbiamo il dovere morale e civile di insegnare loro le potenzialità degli oggetti che hanno tra le mani 18 ore al giorno, se questi sono utilizzati con criterio».