La Grande Prateria. Bambini iperprotetti, ma liberi di correre in rete
Fabiola, 8 anni, appassionata di Minecraft, si connette in rete per partecipare a sfide con builders preadolescenti di ogni parte del mondo. Luigi, 10 anni, ogni pomeriggio alle 18.30 si incontra online con i compagni di classe sulla chat di Clash Royale. Michele, 9 anni, si collega al web con la sua Nintendo Wii per giocare con altri bambini nella modalità ‘battaglia a squadre’ di Splatoon. Minecraft, Nintendo Splatoon, Clash Royale. Un gioco sandbox di costruzioni nato per il pc, uno sparatutto per console, un videogioco di strategia per tablet. Cos’hanno in comune? La dimensione sociale. I bambini in rete fanno la cosa più naturale del mondo, la stessa che fanno quando vanno ai giardinetti: cercano altri bambini con cui giocare e confrontarsi.
Quella stessa dimensione sociale, insieme al gioco, è del resto uno dei pilastri nel processo attraverso cui i bambini imparano. Seymour Papert – che è scomparso l’anno scorso dopo aver gettato le basi concettuali e pedagogiche del coding applicato alla didattica – indicava nelle “4 P” (Projects, Passion, Peers, Play) le colonne portanti dell’apprendimento: i bambini imparano se si applicano ad un progetto in cui siano coinvolti emotivamente, insieme ad altri bambini, in una dimensione ludica. Si tratta di elementi che sono spesso presenti nei videogiochi citati in precedenza (e che purtroppo non sempre troviamo all’interno del contesto scolastico).
Sempre Papert, che aveva lavorato con Piaget, sottolineava come giocare significhi sperimentare, rischiare, oltrepassare i propri limiti e aggiustare poi il tiro quando si sbaglia. Per crescere, quindi, i bambini devono correre dei rischi e devono incorrere in errori, dimensioni che oggi come genitori tendiamo ad eliminare dalla vita dei nostri figli. Li intruppiamo in un frenetico programma di attività extracurricolari –calcetto, chitarra, catechismo, danza… – durante le quali sono sempre supervisionati dagli adulti. C’è sempre qualcuno accanto a loro che gli dice cosa devono fare e come devono farlo. Il cortile o la strada, come spazi di gioco libero non mediato dagli adulti, sono pressoché scomparsi dalla vita dei nostri figli, come la possibilità di sbucciarsi un ginocchio o di arrampicarsi su un albero. Eppure, è proprio nei momenti di gioco libero che i bambini sperimentano i propri limiti, si confrontano con le proprie paure e imparano a gestirle.
Secondo lo psicologo Peter Gray, autore di “Lasciateli Giocare”, la diminuzione costante dagli anni Settanta ad oggi del tempo e degli spazi di gioco libero sono all’origine della diminuzione della creatività e dell’aumento dei casi di ansia e depressione nei bambini. Noi li teniamo al sicuro a casa e facciamo diminuire le nostre inquietudini, ma facciamo al tempo stesso crescere le loro.
I bambini di oggi hanno però trovato una via di fuga, dove riconquistare spazi di autonomia, liberi dal controllo parentale. La rete è infatti una grande prateria dove paradossalmente questi ragazzini di solito iperprotetti sono liberi di scorrazzare senza la supervisione di un adulto. Complice il fatto che la nostra è una generazione di transizione, di “immigrati digitali” che non si muovono a proprio agio online e che hanno mediamente un bassissimo livello di alfabetizzazione digitale. I genitori non impongono per esempio alcun divieto al 70% degli studenti di scuola superiore e al 35% di quelli di scuola media in quanto ai videogiochi vietati ai minori, che sono quindi ampiamente diffusi tra i giovani tra gli 11 e i 18 anni. Oppure consentono ai propri figli di aprire un account su un social network, sotto l’età minima prevista (da un’indagine Doxa Kids risulta che più dell’85% dei ragazzi conosce un minore di 13 anni iscritto a FB). Tra i genitori prevale un senso di spaesamento che induce molti a rinunciare al proprio ruolo educativo o a oscillare in modo schizofrenico tra divieti intransigenti e l’assenza totale di regole. Così i bambini riconquistano online la facoltà di scegliere in autonomia e si riappropriano di quegli spazi di gioco libero che gli abbiamo negato nel mondo reale.
Tutto questo sarebbe in fondo positivo, se non fosse che i cosiddetti “nativi digitali” sono anche “naïf digitali”. Abituati a smanettare sulle tastiere semplificate degli smartphone, utilizzando programmi che preconfezionano per loro funzioni limitate e ben definite, hanno una conoscenza molto sommaria di come funzioni un computer o il web. Nessuno gli ha mai spiegato come tutelarsi online o come è strutturata la rete; nessuno gli ha mai parlato di privacy o di diritto d’autore. Nessuno gli ha raccontato che i like di Facebook scatenano nel nostro cervello un rash di dopamina – il neurotrasmettitore che media la sensazione di gratificazione e piacere al cervello – simile a quello causato da alcool, droga e sesso e capace di creare altrettanta dipendenza.
In poche parole, nessuno si è mai preoccupato di spiegargli gli elementari diritti e doveri che fanno parte della cittadinanza digitale. Perché queste regole in molti casi devono ancora essere scritte – #ParoleOstili e il Manifesto della comunicazione non ostile firmato a Trieste il 17 Febbraio scorso sono un importante passo avanti da questo punto di vista. E anche quando queste regole esistono, gli adulti, i genitori, gli insegnanti sono i primi a non conoscerle.
In assenza di un codice di comportamento definito dagli adulti, in rete sono i ragazzi stessi a darsi delle regole non scritte ma ampiamente condivise. Devorah Heitner, autrice di Screenwise, ha intervistato una serie di studenti delle scuole medie americane sull’uso di Instagram e ha scoperto che concordavano su quando fosse socialmente consentito postare una foto in costume da bagno e sul numero massimo di foto da postare di un evento per non far sentire esclusi i compagni che non hanno partecipato alla festa.
Regole ferree, diverse da quelle che si darebbero gli adulti, ma condivise dalla comunità di pari. Quando parliamo di rete, in fondo, non facciamo altro che parlare di relazioni, di ciò che costituisce la sostanza della nostra identità. Noi siamo le relazioni che costruiamo, al punto che – come racconta l’immunologa Esther Sternberg – il nostro cervello porta sempre con sé una mappa dei nostri rapporti sociali e affettivi e il nostro corpo reagisce alle malattie in base alle emozioni positive o negative che essi causano.
È sperimentando nuove relazioni online che i ragazzi costruiscono la propria identità sociale, al di fuori del contesto protetto della famiglia, nell’età delicata della preadolescenza, quando il punto di riferimento inizia a spostarsi dai genitori alla sfera degli amici. Nei videogiochi e sui social coltivano quella dimensione sociale non mediata che spesso non possono sviluppare altrove. È lì che si danno nuove regole di convivenza e scrivono le parole di un nuovo lessico condiviso. È lì che spesso affrontano le loro paure e si misurano con i propri limiti, mentre genitori inconsapevoli li pensano al sicuro nelle loro camerette.
Se questo è lo scenario, cosa dovrebbero fare i genitori? Semplicemente, essere genitori online come lo sono offline, perché la genitorialità non cambia se muta l’ambiente in cui si esercita. I bambini hanno comunque bisogno di limiti, di regole, di dialogo e di condivisione. Hanno bisogno soprattutto di grande buonsenso, di genitori che magari non sanno come usare Instagram Stories e non hanno mai aperto Wattpad – perché loro, i nativi digitali, saranno sempre un passo avanti sull’ultima piattaforma e sulla funzionalità più recente – ma che possono guidarli ad essere consapevoli cittadini della rete, pronti a ricavarne il meglio e a riconoscerne i pericoli.
Compito degli adulti, oltre ad educarli alle competenze digitali, alla programmazione, a come usare i motori di ricerca, è educarli alla cittadinanza digitale, ai diritti e ai doveri, al rispetto e all’empatia, che valgono quando siamo su un social così come quando ci troviamo faccia a faccia tra amici.
Questo articolo è tratto dall’intervento di Roberta Franceschetti per Mamamò/DigitalBoom a #PaoleOstili del 18 febbraio 2017 nell’ambito del panel “Bambini e Social Media” coordinato da Daniela Pavone – Senior Marketing Advisor e cui hanno preso parte Francesca Agrati – Social media per Topolino Magazine, Michele Arlotta – Head of Consumer Insight, Marketing & Sales – TV Channels presso De Agostini Editore SpA, Casty – Sceneggiatore e disegnatore per Topolino Magazine, Davide Catenacci – Caporedattore di Comics Topolino, Barbara Forresi – Psicologa e psicoterapeuta, Cristina Liverani – Research Manager responsabile dei progetti di ricerca di Doxa Kids, Fabrizio Savorani – Marketing Senior Advisor, consulente per Doxa Kids.
Condividiamo di seguito la presentazione del nostro intervento.