La Buona Scuola e il digitale
Sulla carta la “vision” del progetto “scuola digitale” del governo Renzi parte con il piede giusto. Se in passato si era molto parlato (e poco fatto) solo di infrastrutture e di libri digitali, il documento programmatico “La Buona Scuola” pubblicato ieri online dall’esecutivo sembra alzare il punto di osservazione e approcciare il digitale per quello che è: una “rivoluzione della conoscenza che va ben oltre la tecnologia, e tocca il modo in cui il sapere si crea, si alimenta, e si diffonde”.
Giustamente si sottolinea che i nativi digitali non possono limitarsi a consumare semplicemente contenuti digitali, non devono “accontentarsi di utilizzare un sito web, una app, un videogioco, ma progettarne uno”. Per questo il documento anticipa l’intenzione di creare un piano nazionale che introduca a scuola fin dalle classi primarie, anche attraverso modalità ludiche, il coding, ovvero un approccio alla programmazione come strumento di apprendimento adatto alle esigenze di una società digitale. È da tempo che su questo sito auspichiamo una presa di posizione di questo genere da parte della scuola perché siamo convinti che apprendere i principi della programmazione giocando, anzi imparando a costruire il proprio gioco digitale, sia una delle competenze che ogni bambino dovrebbe sviluppare, insieme a leggere e fare di conto. Una delle 50 cose da fare, prima di compiere 13 anni.
A questo proposito il governo prevede di lanciare anche in Italia la piattaforma code.org – il cui motto è “Ogni studente di ogni Scuola dovrebbe avere l’opportunità di imparare informatica” – attraverso una mobilitazione di associazioni, università e imprese. Il documento fornisce anche una tabella con gli obiettivi da raggiungere da qui al 2017: il 40% (delle scuole? degli studenti?) dovranno aver interagito con la piattaforma italia.code.org, il 25% aver completato il percorso “one hour of code”, il 9% quello delle 9 lezioni.
Per la scuola secondaria si punta anche sul movimento dei makers per spingere i ragazzi a diventare produttori digitali attraverso esperienze che dovrebbero nascere da “accordi dedicati con la società civile, le imprese, l’editoria digitale innovativa” per raccontare una storia, creare un’inchiesta, imparare a gestire al meglio le dimensioni della riservatezza e della sicurezza in rete o utilizzare una stampante 3D.
Le buone premesse ci sono. Come tutto questo debba avvenire è invece un po’ meno chiaro. Perché se è vero che le buone pratiche sperimentali e all’avanguardia esistono già nella scuola italiana – il progetto bookinprogress partito dall’ITIS Majorana di Brindisi è un esempio tra i tanti – è anche vero che un elevato numero di istituti non hanno pc né connessione internet (per non parlare di tablet o stampanti 3D). Il progetto dell’esecutivo sembra far affidamento eccessivo sulle risorse esterne alla scuola, sia a livello di infrastrutture che a livello di competenze. L’idea di una scuola aperta verso l’esterno è suggestiva, ma non può essere l’unica strada praticata. Il cambiamento deve entrare nelle scuole. Può entrarvi per contagio dall’esterno, ma deve rimanerci e produrre nuovo cambiamento.
Abbiamo una classe di docenti con un’età media elevata che avrebbero bisogno di essere formati. Il documento parla nello specifico di “formare i docenti al digitale” e riconosce anche un ruolo cruciale all’interno della singola scuola, agli “innovatori naturali”, che saranno premiati con una quota dei fondi per il miglioramento dell’offerta formativa, ma dovranno anche formare altri docenti perché sì riconosce un ruolo centrale agli insegnanti nella formazione dei colleghi.
Insomma, la rivoluzione deve camminare sulle gambe di una nuova classe di insegnanti capaci di ripensare la didattica in modo che sfrutti tutte le nuove opportunità offerte dal digitale. La Buona Scuola è una nuova scommessa. Speriamo che non rimanga solo sulla carta.