Educazione Digitale: 5 miti da sfatare

Educazione Digitale: 5 miti da sfatare

Dal 2011 al 2013 il tempo medio trascorso con dispositivi mobili da parte di bambini sotto gli 8 anni è triplicato, da 5 a 15 minuti (Dati Commonsense Media). Mentre tablet e smartphones erodono tempo ai media classici come la tv e godono di un crescente successo presso i ragazzi, che atteggiamento hanno gli adulti verso gli schermi touch?

Molti genitori continuano a nutrire diffidenze che si alimentano di preconcetti, come è emerso dai risultati della ricerca #NatiDigitali, pubblicati in questi giorni. Di seguito abbiamo cercato di sfatare i 5 miti più radicati negli immigrati digitali, che rendono difficile comprendere la realtà attuale e adattarsi ad un punto di vista nuovo: quello dal quale i nostri figli guardano il mondo.

IL MITO DELLA PROFONDITÀ

È proprio vero che i nostri figli sono superficiali? Oppure siamo noi che cerchiamo il significato del loro mondo nel posto sbagliato, in una dimensione ormai scomparsa?

Il libro di carta è il simbolo di un approccio culturale capace di andare in profondità, di sviscerare un tema. Un approccio dai tempi lenti, basato sulla sedimentazione verticale. Il mondo dei nostri figli viaggia invece veloce, in superficie, stabilendo connessioni orizzontali tra punti di una rete apparentemente lontani. Quando guardiamo i nostri figli che postano compulsivamente micro messaggi sgrammaticati in rete, li sentiamo estranei, barbari che parlano un’altra lingua venuti a distruggere la “Civiltà”.

Ma, come sottolinea Alessandro Baricco nel suo saggio “I Barbari“, “…uno dei traumi cui la mutazione ci ha sottoposto è proprio il trovarsi a vivere in un mondo privo di una dimensione a cui eravamo abituati, quella della profondità […].  era un modo miope [di leggere le cose]: scambiava l’abolizione della profondità con l’abolizione del senso…”. I nostri figli sono il frutto di una mutazione antropologica. Il loro mondo ci appare privo di senso perché ci ostiniamo a cercare il significato là dove non c’è più, in profondità, mentre – che ci piaccia oppure no – il significato ormai abita la superficie, la pelle delle cose.

IL MITO DELLA MAGIA DELLA CARTA

Il digitale fa perdere la magia del libro? Oppure la magia risiede nel contenuto, nel racconto e non nel contenitore? 

Dalla ricerca #NatiDigitali emerge come 63% di coloro che non hanno mai usato libri digitali con i propri bambini teme che possano “far perdere la magia del libro”.  Chiedete ad un bambino cosa pensa di un tablet e vedrete che quell’oggetto capace di tirar fuori contenuti illimitati come la borsa di Mary Poppins ha un buon livello di incantamento. Anche in questo caso, c’è un problema di prospettiva: si scambia il contenitore per il contenuto. La magia non emana dalla cellulosa della pagina, ma dalla storia che riesce a farci vivere altre dimensioni, altre vite. Che la storia sia su carta o su schermo, poco importa, purché sia una buona storia, ben raccontata, capace di sfruttare tutte le opportunità e le caratteristiche del mezzo.

IL MITO DE “I VIDEOGIOCHI FANNO MALE”

I videogiochi non sono tutti uguali (come i libri, i film, i giochi…); alcuni sono addirittura utilizzati come terapia per la dislessia. Forse i genitori dovrebbero imparare a conoscerli meglio e scoprirebbero che…

Ma di quali videogiochi stiamo parlando? L’universo dei videogiochi è una sconfinata prateria fatta di dispositivi e contenuti disparati. Se prendiamo in considerazione solo gli sparatutto, che sono spesso bersaglio di critiche da parte dei genitori per i contenuti violenti e i ritmi frenetici, dovremmo innanzitutto imparare a conoscere il sistema di classificazione PEGI, quel numero indicato sulla confezione del videogioco che indica l’età minima consigliata. Inoltre, proprio alcuni dei videogiochi dai ritmi più “frenetici” posso essere usati  per “curare” i deficit da attenzione visiva. ?Secondo una ricerca dell’Università di Padova il tempo impiegato con i videogiochi d’azione può effettivamente aiutare i bambini dislessici a leggere meglio. Il che non vuol dire che tutti i bambini debbano dedicarsi agli sparatutto. Vuol dire semplicemente che la realtà (anche quella del mondo digitale) è troppo complessa per appiccicarci facili etichette.

IL MITO DELL’ORIGINALITÀ CREATIVA

Ma è così negativo il fatto che i nostri figli copino da internet? Oppure in un’epoca postmoderna l’originalità non è più un parametro di valutazione? Forse dovremmo preoccuparci di più di come e cosa copiano…

Genitori e insegnanti si lamentano della scarsa creatività dei giovani, della loro tendenza a rielaborare fonti esistenti trovate in rete. Henry Jenkins, uno dei massimi studiosi di Mass Media, già a capo del Media Lab del MIT di Boston, scriveva a questo proposito che “Molti adulti sono preoccupati perché questi ragazzi “copiano” contenuti mediatici già esistenti invece di creare opere originali. Le loro appropriazioni si dovrebbero invece considerare come una sorta di apprendistato… Le nostre aspettative moderne circa l’originalità creativa rappresentano un carico pesante per chiunque si trovi agli esordi della carriera”.

Il valore attribuito all’originalità è un dogma dell’epoca moderna, sconosciuto alle epoche precedenti: un architetto greco era apprezzato per la sua capacità di interpretare un canone quale paradigma di bellezza e armonia, un artista medievale per la sua capacità tecnica di lavorare i materiali e di replicare formule iconografiche tradizionali. Dobbiamo rassegnarci a vivere in un’epoca postmoderna, in cui al mito dell’originalità creativa deve sostituirsi il concetto dell’apprendistato di bottega. E in cui il compito degli adulti diventa quello di guidare i nativi digitali a selezionare e interpreatare le fonti, a comprendere che copiare dal sito del Max Planck Institute non è come copiare da Focus Junior. 

IL MITO DELL’ISOLAMENTO

I dispositivi digitali isolano meno di quanto non faccia la tv e possono essere uno stimolo a scoprire il mondo esterno. Quanto alla mancanza di gioco libero e vita all’aria aperta, non è colpa dei tablet ma delle nostre paure… 

Secondo molti immigrati, i dispositivi digitali isolano dal mondo esterno, dai rapporti interpersonali, dalla sana vita all’aria aperta. Vero, in parte, ma con alcune doverose precisazioni.

  1. Lo fanno molto meno della tv: il co-viewing come pratica di condivisione dello schermo è molto più praticato sugli schermi interattivi dei tablet, che consentono di leggere insieme un libro o di giocare in coppia.
  2. Alcune applicazioni spingono ad utilizzare tablet e smartphone per interagire con la realtà, e per comprenderla, più che per isolarsi. Penso per esempio a quelle di Curious Hat o a quelle di riconoscimento botanico del progetto Siit, che permettono di inquadrare un fiore e avere tutte le informazioni su quella specie.
  3. Quando si decide giustamente di limitare il tempo quotidiano di utilizzo degli schermi da parte di un bambino bisognerebbe prendere in considerazione anche quello trascorso a guardare programmi in tv (che, per inciso, è un’attività decisamente più passiva rispetto a tablet e smartphone).
  4. Abbiamo privato i nostri figli dalla sana vita all’aria aperta ben prima della “rivoluzione digitale”. Come sottolinea lo psicologo Peter Gray, in “Free to Learn” dagli anni Settanta in avanti il tempo a disposizione dei bambini per il gioco libero – quello fatto in cortile, al parco, in strada senza la mediazione degli adulti – è calato costantemente. I bambini hanno passato sempre più tempo “al sicuro” in casa o in attività organizzate – il corso di inglese, la piscina, il teatro – dove non hanno la possibilità di confrontarsi liberamente con i loro pari, misurarsi con i propri limiti, sperimentare la paura e imparare a gestirla. Per questo secondo Gray si assiste ad una crescita di casi di ansia e depressione in età infantile.

Abbiamo fatto calare le nostre inquietudini, tenendo i nostri figli all’interno dei confini protetti delle nostre abitazioni, ma abbiamo fatto aumentare le loro. E questo richiede un ripensamento che va al di là di tutti i discorsi sul digitale.