Dimmi cosa posti e ti dirò chi sei. La costruzione dell’identità digitale
Dimmi cosa posti e ti dirò chi sei. No, a parlare non è l’algoritmo di Facebook, sempre più al centro di analisi e critiche, ma un gruppo di adolescenti. “Marco si fa sempre le foto a mezzo busto coricato sul letto e si vede bene che si è pettinato prima di scattarla” piuttosto che “Matilde posta foto in cui cammina, ci mette i suoi passi, le impronte dei suoi piedi, la strada percorsa…” o ancora “Adele si fa le foto seduta sulla tavoletta del bagno”.
Sanno tutto degli stati di WhatsApp publicati da un amico, delle sue storie e della bio scritta sulla bacheca di Instagram. Quando uno posta, cosa posta, chi tagga, quanti follower ha, la foto col maggior numero di like.
Ad ascoltarli si potrebbe avere l’impressione di trovarsi di fronte a un nutrito gruppo di dipendenti della Stasi, la polizia segreta della ex Repubblica Democratica Tedesca (DDR) che aveva il compito di spiare la vita dei cittadini della Germania del’Est per scongiurare rivolte contro lo Stato. La differenza è che sui social network tutto è pubblico e che nessuno di questi ragazzi è pagato per guardare le vite degli altri (titolo di un bellissimo film che parla proprio dello spionaggio nella ex DDR).
La storia di noi che raccontiamo online
Siamo dunque osservati e non solo da Mark Zuckerberg. Sono quasi certo, anche se non me l’hanno detto, che quei ragazzi di cui sto parlando hanno fatto la radiografia anche ai miei profili e alle mie foto. Sanno di me molte più cose di quelle che posso immaginare o sapere io stesso. D’altronde, sui social network raccontiamo le nostre vite ed è normale che ci sia qualcuno che osserva e ascolta queste storie. A questo, però, siamo meno preparati.
Ho in mente l’imbarazzo di un ragazzo quando gli ho chiesto se mi faceva vedere le foto pubblicate su Instagram o i tentativi di depistaggio messi in atto da un altro giovane che non voleva farmi sapere il nome del suo canale su YouTube (“è troppo lungo, te lo dovrei scrivere, non lo ricordo mai…”). Come se online si raccontasse una storia a parte, separata, non del tutto sovrapponibile a quella di tutti i giorni. Ma non è così. Attraverso i social network, costruiamo un’immagine di noi stessi e quell’immagine contribuirà a dirci chi siamo. Per questo motivo diventa fondamentale essere consapevoli della storia che si sta raccontando e accorgersi di come ogni singolo particolare contribuisca a quel racconto.
Sui social nessuno è “vero”?
“Ma la collezione dei miei stati, le foto, i video, i post sul blog e i podcast mi rappresentano davvero? Certamente è un’espressione della mia identità. Ma è anche quella che posso manipolare”. Tutto quello che in rete parla di noi, seguendo le parole della psicologa Alex Crotoski, racconta qualcosa di noi. Ma nello stesso tempo, mai come in questo momento storico, abbiamo la possibilità di manipolare queste informazioni. Ogni foto e post che inseriamo sui social network sono il frutto di una manipolazione. Decido cosa scrivere, cosa omettere, che foto postare e quale no, che parte del mio carattere far vedere, quali frammenti di vita quotidiana rendere pubblici e cosa tenere per me.
Con una provocazione potremmo dire che sui social nessuno è vero. Esattamente come per strada, si potrebbe obiettare. Certamente e infatti nessuno può accedere al proprio segreto, alla propria verità, e avere una risposta definitiva alla domanda “chi sono io?”.
“L’io non è padrone in casa propria”
Ce lo ricordava Freud in diversi suoi testi. Una formula che vuole proprio sottolineare l’impossibilità ad avere un pieno controllo della propria identità. Quale allora la differenza con i social network?
Sui social abbiamo l’illusione di aver finalmente preso il controllo sulla nostra identità e su quella degli altri, di essere diventati padroni di casa, riprendendo la metafora freudiana. Il meccanismo dei social network culla questa illusione, facendoci credere che quell’immagine che scorre davanti ai nostri occhi corrisponda alla nostra identità o a quella degli altri. Per questo motivo ragazzi e adulti pongono tutta questa attenzione alla cura di quell’immagine.
Da un certo punto di vista, tra l’altro, hanno pure ragione. I social network contribuiscono alla costruzione della nostra identità e fare attenzione a quanto pubblichiamo e a cosa dicono gli altri di noi online è molto importante. D’altra parte, però, tutta questa ossessione nei confronti dell’immagine non porta a nulla di buono. Non è un caso, infatti, che la depressione sia la malattia del nostro tempo. Più si investe sulla propria immagine più sarà grande la delusione quando si scoprirà di non essere quello che si pensava di essere.
Ciò che avviene online ha dunque molta importanza nella definizione delle nostre identità. Di fronte abbiamo due strade (e non è detto che non si debbano intraprendere entrambe).
Se l’identità digitale rischia di diventare una gabbia
La prima, come si ricordava, consiste nel curare la propria immagine e nell’aver cura dell’immagine dell’altro. Porre attenzione a cosa si posta, consigliare a un amico di eliminare un tag o una fotografia, evitare di mettere in cattiva luce una persona, accorgersi che la storia che si sta raccontando ha un effetto nel reale della vita. Un aiuto, rispetto a quest’ultimo punto, può arrivare dal porsi questa domanda: “se queste cose che sto scrivendo online venissero riprese dai miei amici in mia presenza sarei in imbarazzo?”. Un modo come un altro per chiedersi se quel racconto che sta avvenendo online è coerente con la propria vita.
La seconda consiste nello sgonfiare i social network, rendendoli meno centrali all’interno delle nostre vite. Non è vero che siamo più trasparenti e sinceri se ci raccontiamo sui social. Non è vero che le contraddizioni non fanno parte della vita di un essere umano. Non è vero che esistiamo solo in funzione dei like.
Il concetto di identità è molto complesso e quello di identità digitale non lo è di meno. I social ci hanno illuso di avere trovato un modo più semplice per scoprire chi siamo, ma è sempre più chiaro che non è così. Anzi, l’identità digitale rischia di diventare una gabbia, qualcosa che impedisce di evolversi, di sperimentarsi, di incontrare l’Altro.
Italo Calvino, nelle sue Lezioni Americane, ci ricordava:
Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.
Da questa consapevolezza dobbiamo ripartire.